Quando la Pentecoste?

Un passaggio degli Atti degli Apostoli narra del diacono Filippo che per obbedienza allo Spirito si ritrova lungo la strada da Gerusalemme a Gaza. Ai suoi occhi gli appare deserta, solo un carro in lontananza e su questo uno straniero, un etiope, che legge e riflette su alcuni versetti del profeta Isaia (cfr. Atti 8, 26-40)

Ci si rende conto che quell’uomo sul carro, pure ricoprendo un incarico importante, subisce un grosso limite. È impedito dalla sua condizione di sterilità a fare parte del popolo dell’alleanza. Il brano del profeta parla di qualcuno di cui è stata recisa dalla terra la sua vita. L’eunuco, che fino a quel momento ha subito la situazione di morte, nell’ascolto delle parole del diacono Filippo rilegge nella vicenda di costui la propria esperienza che aspira ad una pienezza di vita e chiede di appartenere alla comunità del Risorto.

Il ritrovarsi in un deserto, non tanto geografico, ma esistenziale, non solo per un momento, ma per anni è come sopportare la “castrazione” degli affetti o della salute o delle certezze: le delusioni, i rimpianti, i dubbi si rincorrono e ingigantiscono, ci tolgono pace e speranza.                                                                                                                       L’ascolto del passo biblico ha portato al mio pensiero la condizione di solitudine subita da tanti di noi. Due le categorie di persone che più ne soffrono, la larga fetta della popolazione italiana che si trova a doversi gestire, da sola, nella tarda età e l’altrettanto significativa percentuale di emigrati che risiedono nel nostro paese. Presumo che gli appartenenti ad entrambe le categorie siano accumunati dal ritrovarsi in un mondo non più loro, si temino a vicenda e abbiano paura gli uni degli altri. Alcuni, i più giovani, riescono ancora a lottare e mettersi alla ricerca di un senso al proprio esistere, altri si arrendono. Ma vi è anche un altro aspetto, meno immediato.              Ormai abituati a valutare l’altro dal punto di vista dell’utile ci sfugge che i migranti arrivati da noi continuino con tenacia a coltivare la loro fede in Dio, a livello personale e comunitario. Mi chiedo se questo dato di fatto, per noi che ci diciamo cattolici, possa diventare una via di conoscenza del loro modo di essere, indipendentemente dal credo religioso professato, fino a stimarli e a sentirli prossimi.

Consideriamo alcuni episodi come quelli di donne dell’Est europeo, dedite alla cura dei nostri vecchi nell’ultimo tratto della loro esistenza terrena, che recitano l’Ave Maria e aiutano a pregare il malato. Sono chiaramente segni di amore, di tenerezza. Una dedizione, la loro, che va al di là del mestiere a cui per necessità sono costrette, trasmettono e testimoniano la fede nel Cristo morto e risorto.

Muoviamo ora da un altro punto di osservazione, ci siamo senz’altro chiesti dove si ritrovino tra di loro i diversi gruppi etnici e che cosa facciano: da fuori si sente solo un gran vociare, musiche e canti. Il loro bisogno di ritrovarsi li ha portati a cercare nelle periferie o nei quartieri popolari, ad accontentarsi di quanto trovano a prezzi bassi e a chiedere l’uso di locali dismessi. Le comunità cristiane di emigrati chiedono alle nostre diocesi le chiese non più frequentate dai fedeli, gli altri gruppi etnici si ritrovano in scantinati, garage, capannoni abbandonati, magazzini. I luoghi sono difficili da raggiungere e non certamente comodi per trascorrervi, fitti fitti, diverse ore, eppure le espressioni di fede sono pulsanti, lunghi i momenti di preghiera comunitaria, il nome di Dio è invocato; la condivisione delle attese richiede poi la partecipazione alla stessa mensa.

Mentre una larga fetta della popolazione di madre lingua italiana, ritenendola inutile, ha abbandonato la relazione di fede con Dio, i migranti la stanno facendo riemergere nonostante la loro marginalità.                                                                                          Lasciamoci risollevare dai loro sentimenti di vita così generosi, è una mite potenza che ci scuote e ci invita ad uscire dalla tristezza a cui ci siamo assuefatti. La brezza dello Spirito Santo può assumere questo modo di manifestarsi fino a portarci su di un percorso di riconciliazione con la nostra dimensione religiosa.

Infine, mi congedo con una domanda. Ci potrà mai essere un riconoscimento di una identità culturale e sociale senza che sia preceduto da un’esperienza di ricerca tra le fedi?

                                         

                                                                                                                                     fr. Guido Ravaglia