Le aree periferiche delle nostre città ci propongono di frequente, l’incontro con gruppi di persone migranti che nei loro abiti tradizionali entrano o escono da un capannone all’apparenza dismesso. Invece, è stato acquistato e riadattato dopo aver ottenuto i dovuti permessi a luogo di culto e di aggregazione.
L’incontro suscita reazioni diverse: di sorpresa, di disprezzo, un senso di delusione può impossessarsi di noi per la presenza “a casa nostra” di altre chiese o religioni. Invece, quanti di noi si sentono interpellati da queste presenze non previste prendono atto che il nostro paese è chiamato ad interpretare un fenomeno non prima sperimentato: quello di un pluralismo religioso che sta muovendosi dal basso.
Ci rendiamo conto che la religione non è soltanto un insieme di narrazioni o di norme etiche, di riti cultuali che nelle diverse società esprimono la relazione con il divino. Attorno ai luoghi di culto, gli immigrati danno vita ad attività comunitarie, a diverse reti di solidarietà, a corsi di formazione alla fede in Dio, a servizi educativi.
Le nostre parrocchie non sono forse caratterizzate da queste espressioni di fede cristiana accanto alla chiesa? La libertà di fede e di culto conclamate alla nostra Costituzione comporta quella di espressione pubblica e di aggregazione. Superiamo la reazione istintuale e ci renderemo conto di quanto sta avvenendo. Stiamo assistendo ad un protagonismo da parte di gruppi di migranti che, nonostante siano sradicati e trapiantati in contesti sconosciuti, con risorse e mezzi limitati, in condizioni sociali marginali trovano nelle loro tradizioni religiose un riferimento identitario, una fonte di speranza e di solidarietà. L’impegno religioso nel cercare e trovare spazi da destinare al culto, adattandoli, unitamente all’impegno di organizzare le attività sociali, sono segni eloquenti delle capacità di iniziativa dei migranti e dei loro sforzi per continuare a coltivare la fede in Dio secondo le loro tradizioni e sensibilità. Prendiamo anche atto che la maggior parte dei lavori sono compiuti direttamente da loro o privandosi di beni necessari per sostenere le inevitabili spese. A gente che si dà da fare in questo modo si deve stima e rispetto. Se vogliamo contribuire a costruire un futuro che interpreti le novità di questo inizio millennio con la finalità di creare relazioni personali pacificate e collaborazione a livello sociale dovremmo sentire la necessità di approfondire la conoscenza delle comunità di migranti che vivono negli ambienti dove abitiamo o lavoriamo. Per costruire in noi stessi e nella comunità di appartenenza un atteggiamento di apertura alla verità che è negli altri, potremmo cominciare a conversare con loro sulla vita umana. L’ascolto incrociato fra loro e noi dei racconti delle storie di vita farebbe emergere che le speranze e le attese di una vita buona per il domani in particolare
per i figli convergono, che i significati delle espressioni culturali, le credenze religiose, le visioni del trascendente offrono finestre che accomunano e ponti da percorrere insieme. Un simile percorso ci educherebbe ad accettarli nella loro differenza, fino a riconoscere
che il dialogo con i credenti delle altre religioni è un arricchimento. La vera apertura comporta di tenersi fermi nelle proprie convinzioni più profonde e al tempo stesso aperti a comprendere l’altro senza formulare giudizi su di lui, su di loro.
Non è che la speranza nel Signore Gesù ci induca a questo cammino?
Sarebbe una vera opera di carità che purificherebbe e approfondirebbe la nostra fede in Dio Padre.
fr. Guido Ravaglia