Da quando mi è stato affidato il ruolo di referente della missione del Burundi, i viaggi si fanno sempre più impegnativi e pieni di responsabilità; credo di esserci andata circa una quarantina di volte.
Questa volta il mio punto di partenza è Roma, aeroporto di Fiumicino; un ultimo saluto alle persone più care e poi con la mente è tutto un riandare laggiù, a Kayongozi, tra quella povera gente, tra i frati che ci attendono, per condividere con noi le fatiche e i problemi che si presentano ogni giorno. Spesso, nelle mie giornate italiane, penso a loro, ai sacrifici che fanno per portare avanti questo magnifico “Villaggio della Carità”. Una carità totalmente gratuita, che non chiede mai nulla in cambio, talvolta mal interpretata, dai potenti del luogo, come se noi avessimo chissà quale fine. Ma poi ti immergi nella realtà vera e capisci che l’unica cosa che conti veramente è andare avanti, chiedere al buon Dio di aiutarci e trovare, grazie a Lui, il modo per far sì che quella goccia, nel mare della povertà, possa continuare a dare linfa e speranza.
Ci immergiamo nella progettazione del nuovo Centro sanitario: il Ministero della Sanità ci chiede di mettere in funzione una sala operatoria per poter effettuare i parti cesarei.
Sono molte, troppe, le donne che ancora muoiono di parto. I circa settanta bambini da noi ospitati sono quasi tutti figli di una vita stroncata, mentre loro venivano alla luce. È un progetto per noi ambizioso, sia nella realizzazione, che nella gestione, ma il Signore ci aiuterà, come ha sempre fatto in questi cinquant’anni di vita della missione. In una domenica andiamo a visitare alcune famiglie sulle colline: siamo io, il Ministro Provinciale fr. Enzo e alcuni collaboratori che ci aiutano nella gestione delle adozioni a distanza. Per fr. Enzo* è la prima volta che fa un’esperienza di questo tipo e rimane molto colpito: come non esserlo! I collaboratori ci accompagnano a vedere alcune situazioni di vita che vengono loro segnalate, in quanto bisognose di aiuto.
Penso a quella bambina di tre anni trovata, da una donna, sulle rive del Kayongozi, quasi come fosse lasciata lì da una marea, nella speranza che qualche anima buona la raccogliesse. La madre le era morta da pochi giorni, il padre non c’era; non aveva nessuno e si era allontanata dal suo villaggio. La donna la trovò sporca, affamata e in lacrime, la prese con sé e la portò nella sua capanna. Quando la incontrammo era insieme agli altri sette figli, ripulita nell’aspetto, ma con occhi pieni di malinconia, mista a gratitudine, con la tipica innocente consapevolezza del bambino. Oppure penso a quell’uomo che, uscito dal carcere, luogo nel quale neppure le bestie sopravviverebbero, si era costruito una piccolissima capanna, incastonata tra due tronchi di albero, tanto piccola da potervi entrare solo accovacciato. Se l’era costruita con foglie di banana secche e paglia; ora ci chiedeva una piccola casa nella quale poter accogliere una moglie.
Rientriamo con il cuore pieno di lacrime. I sentimenti che mi attanagliano, dopo queste lunghe ed intense giornate sono sempre quelli dell’impotenza verso ciò che vedo e dell’immensa gratitudine per ciò che ho.
Ancora oggi, dopo diciotto anni che vado a Kayongozi, mi chiedo: perché ho avuto tanto dalla vita? Che cosa ho fatto per meritarlo? Non ho fatto assolutamente nulla, così come loro non hanno fatto nulla per meritarsi di essere nati in quella parte di mondo.
Concludo ringraziando, insieme a voi, il Signore per gli infiniti benefici che ci ha gratuitamente donato e con il sentimento di dovere verso chi non è stato altrettanto fortunato e baciato dalla Vita. Grazie!
Debora Catarozzolo